Raccontami qualcosa
raccontami qualcosa...
nonno Filippo
mercoledì 27 giugno 2018
martedì 31 maggio 2016
Filastrocca dei mesi
Filastrocca dei mesi
Gennaio tiene i frutti nel solaio
Febbraio piccolo corto e malandrino
Marzo pazzerello esce il sole e prendi l'ombrello
Aprile dolce dormire ogni goccia è un barile
Maggio rosato è il mese profumato
Giugno la falce in pugno
Luglio trebbiatore quanta grazia del Signore
Agosto fa che ogni grano sia riposto
Settembre bello sole e venticello
Ottobre campo piovoso
Novembre gelato raccolto assicurato
Dicembre imbacuccato
zio podger
LO ZIO PODGER (attacca il quadro)
— Lascia fare a me. Nessuno di voi s’impicci del quadro. Farò tutto io.
E allora si cavava la giacca, e cominciava. Mandava, la fantesca a comprare cinquanta centesimi di chiodi, e poi uno dei bambini che la raggiungesse per dirle di che dimensione dovevano essere, e dopo imprendeva gradatamente a mettere in moto tutta la casa.
— Ora, tu, Guglielmo, va a pigliarmi il martello — gridava — e tu Tommasino, va a pigliarmi la squadra; e m’occorrerà anche la scaletta, e forse sarà meglio una sedia di cucina. Tu, Gianni, fa due salti dal signor Goggles; digli: — Tanti saluti da parte di papà, e come state con le gambe? — e se mi vuol prestare il livello. E tu, Maria, non te ne andare, perchè ho bisogno che qualcuno mi tenga la candela; e quando ritorna la fantesca, deve andare a comprare un pezzo di cordone; e, Tommasino!… dov’è Tommasino?… Tommasino, vieni qui; piglia il quadro e dammelo!
E allora il quadro sollevato gli cadeva di mano, e saltava dalla cornice, ed egli, per salvare il vetro, si tagliava un dito; e allora si metteva a saltare per la stanza, cercando il fazzoletto. Non poteva trovare il fazzoletto, perchè l’aveva nella tasca della giacca, e non sapeva dove aveva lasciata la giacca, e tutti di casa dovevano interrompere la ricerca degli strumenti e cominciare a cercar la giacca, mentr’egli intanto seguitava a saltare in giro, impacciandoli.
— Sa nessuno in tutta la casa dov’è la mia giacca? Non m’è capitato mai di vedere gente simile! Siete in sei!… e non siete capaci di trovare una giacca che mi son cavata, cinque minuti fa!… Quant’è vero…
In quel momento era seduto, e scoprendo di star sopra la giacca, gridava:
— È inutile che andiate in giro. L’ho trovata da me. Rivolgermi a voi perchè troviate qualche cosa, è come dirlo al gatto.
E, dopo ch’aveva impiegato mezz’ora a legarsi l’indice, ed era stato trovato un altro vetro, e gli strumenti, e la scala, e la sedia e la candela erano lì pronti, cominciava un altro divertimento: chè tutta la famiglia, compresa la fantesca e la donna a giornata, doveva assistere in semicerchio, pronta a dare una mano. Due persone dovevano reggere la sedia, una terza doveva consegnargli un chiodo, una quarta passargli il martello; e lui, pigliando in consegna il chiodo, lo lasciava cadere.
— Ecco — diceva, in tono d’offesa — è caduto il chiodo!
E tutti dovevamo inginocchiarci a cercarlo, mentr’egli se ne stava ritto sulla sedia a brontolare, e a domandarsi se doveva rimaner lì tutta la sera.
Il chiodo veniva finalmente scovato, ma intanto lui aveva perduto il martello.
— Dov’è il martello? Che n’ho fatto del martello? Giusto cielo! Ve ne state lì in sette a bocca aperta, e non sapete che cosa n’ho fatto del martello!
Gli trovavamo il martello; e intanto aveva perso di vista il segno da lui fatto sulla parete, per configgervi il chiodo; e ciascuno doveva a turno salire accanto a lui sulla sedia per cercar di trovare il segno; e ciascuno lo scopriva in un punto diverso; e lui ci chiamava stupidi, l’uno dopo l’altro, ordinandoci di scendere. E prendeva la squadra, per prender le misure un’altra volta, e trovando che gli occorreva la metà di ottantuno centimetri e tre settimi di centimetro dall’angolo, tentava di fare il calcolo a memoria e gli pareva d’impazzire.
E tutti tentavamo a memoria, e tutti giungevamo a risultati diversi, e ci davamo l’un l’altro la beffa. Nel trambusto generale, era dimenticato il numero originale e zio Podger doveva rimettersi a prender le misure.
Questa volta egli usava un pezzo di corda, e, nel momento critico che lo zio era inclinato sulla sedia a un angolo di quarantacinque, provando di raggiungere un punto un decimetro più di quanto si potesse sporgere, gli scappava la corda, ed egli s’abbatteva sul pianoforte, con un effetto musicale veramente bello, prodotto dalla velocità con cui la testa e il corpo avevano colpito contemporaneamente tutte le note.
E zia Maria esclamava che non voleva che i bambini stessero lì presenti a sentire le espressioni di mio zio.
Finalmente, zio Podger fissava di nuovo il punto, mettendovi su l’estremità aguzza del chiodo con la sinistra, e prendeva il martello nella destra. E, al primo colpo, si schiacciava il pollice, e con un urlo, lasciava cascare il martello sui piedi del più vicino.
Zia Maria osservava con dolcezza che la prossima volta che zio Podger avrebbe dovuto ficcare un chiodo nel muro, le facesse la finezza di avvertirla in tempo, perchè essa potesse disporre le cose in modo da andare nel frattempo a passare una settimana con la madre.
— Oh! le donne fanno sempre un mondo di difficoltà per niente — rispondeva zio Podger, riprendendosi. — Ebbene, a me piace di lavorare un po’ a questo modo.
E allora ci si provava di nuovo, e, al secondo colpo, il chiodo entrava tutto quanto nell’intonaco, trascinandosi dietro mezzo martello, mentre zio Podger veniva proiettato contro la parete con forza quasi sufficiente da appiattirgli il naso.
Allora gli dovevamo trovar di nuovo la squadra e la corda, e si doveva fare un buco nuovo; e, verso mezzanotte, il quadro era appeso – storto e alquanto instabile, con la parete che per dei metri in giro sembrava grattata da un rastrello, e tutti stanchi morti e infelici – tranne lo zio Podger.
— Ecco qui — diceva, balzando pesantemente dalla sedia sui calli della donna a giornata, e dando uno sguardo a tutta quella confusione in giro con orgoglio evidente. — Molti avrebbero avuto bisogno d’un operaio per fare un lavoretto come questo.
Jerome Klapka
I due sposi, Italo Calvino
I due sposi
L’operaio Arturo Massolari faceva il turno della notte, quello che finisce alle sei. Per rincasare aveva un lungo tragitto, che compiva in bicicletta nella bella stagione, in tram nei mesi piovosi e invernali. Arrivava a casa tra le sei e tre quarti e le sette, cioè alle volte un po’ prima alle volte un po’ dopo che suonasse la sveglia della moglie, Elide. Spesso i due rumori: il suono della sveglia e il passo di lui che entrava si sovrapponevano nella mente di Elide, raggiungendola in fondo al sonno, il sonno compatto della mattina presto che lei cercava di spremere ancora per qualche secondo col viso affondato nel guanciale. Poi si tirava su dal letto di strappo e già infilava le braccia alla cieca nella vestaglia, coi capelli sugli occhi. Gli appariva così, in cucina, dove Arturo stava tirando fuori i recipienti vuoti dalla borsa che si portava con sé sul lavoro: il portavivande, il termos, e li posava sull’acquaio. Aveva già acceso il fornello e aveva messo su il caffè. Appena lui la guardava, a Elide veniva da passarsi una mano sui capelli, da spalancare a forza gli occhi, come se ogni volta si vergognasse un po’ di questa prima immagine che il marito aveva di lei entrando in casa, sempre così in disordine, con la faccia mezz’ addormentata. Quando due hanno dormito insieme è un’altra cosa, ci si ritrova al mattino a riaffiorare entrambi dallo stesso sonno, si è pari. Alle volte invece era lui che entrava in camera a destarla, con la tazzina del caffè, un minuto prima che la sveglia suonasse; allora tutto era più naturale, la smorfia per uscire dal sonno prendeva una specie di dolcezza pigra, le braccia che s’alzavano per stirarsi, nude, finivano per cingere il collo di lui. S’abbracciavano. Arturo aveva indosso il giaccone impermeabile; a sentirselo vicino lei capiva il tempo che faceva: se pioveva o faceva nebbia o c’era neve, a secondo di com’era umido e freddo. Ma gli diceva lo stesso: – Che tempo fa? – e lui attaccava il suo solito brontolamento mezzo ironico, passando in rassegna gli in convenienti che gli erano occorsi, cominciando dalla fine: il percorso in bici, il tempo trovato uscendo di fabbrica, diverso da quello di quando c’era entrato la sera prima, e le grane sul lavoro, le voci che correvano nel reparto, e così via. A quell’ora, la casa era sempre poco scaldata, ma Elide s’era tutta spogliata, un po’ rabbrividendo, e si lavava, nello stanzino da bagno. Dietro veniva lui, più con calma, si spogliava e si lavava anche lui, lentamente, si toglieva di dosso la polvere e l’unto dell’officina. Così stando tutti e due intorno allo stesso lavabo, mezzo nudi, un po’ intirizziti, ogni tanto dandosi delle spinte, togliendosi di mano il sapone, il dentifricio, e continuando a dire le cose che avevano da dirsi, veniva il momento della confidenza, e alle volte, magari aiutandosi a vicenda a strofinarsi la schiena, s’insinuava una carezza, e si trovavano abbracciati. Ma tutt’a un tratto Elide: – Dio! Che ora è già! – e correva a infilarsi il reggicalze, la gonna, tutto in fretta, in piedi, e con la spazzola già andava su e giù per i capelli, e sporgeva il viso allo specchio del comò, con le mollette strette tra le labbra. Arturo le veniva dietro, aveva acceso una sigaretta, e la guardava stando in piedi, fumando, e ogni volta pareva un po’ impacciato, di dover stare lì senza poter fare nulla. Elide era pronta, infilava il cappotto nel corridoio, si davano un bacio, apriva la porta e già la si sentiva correre giù per le scale. Arturo restava solo. Seguiva il rumore dei tacchi di Elide giù per i gradini, e quando non la sentiva più continuava a seguirla col pensiero, quel trotterellare veloce per il cortile, il portone, il marciapiede, fino alla fermata del tram. Il tram lo sentiva bene, invece: stridere, fermarsi, e lo sbattere della pedana a ogni persona che saliva. “Ecco, l’ha preso”, pensava, e vedeva sua moglie aggrappata in mezzo alla folla d’operai e operaie sull’”undici”, che la portava in fabbrica come tutti i giorni. Spegneva la cicca, chiudeva gli sportelli alla finestra, faceva buio, entrava in letto. Il letto era come l’aveva lasciato Elide alzandosi, ma dalla parte sua, di Arturo, era quasi intatto, come fosse stato rifatto allora. Lui si coricava dalla propria parte, per bene, ma dopo allungava una gamba in là, dov’era rimasto il calore di sua moglie, poi ci allungava anche l’altra gamba, e così a poco a poco si spostava tutto dalla parte di Elide, in quella nicchia di tepore che conservava ancora la forma del corpo di lei, e affondava il viso nel suo guanciale, nel suo profumo, e s’addormentava. Quando Elide tornava, alla sera, Arturo già da un po’ girava per le stanze: aveva acceso la stufa, messo qualcosa a cuocere. Certi lavori li faceva lui, in quelle ore prima di cena, come rifare il letto, spazzare un po’, anche mettere a bagno la roba da lavare. Elide poi trovava tutto malfatto, ma lui a dir la verità non ci metteva nessun impegno in più: quello che lui faceva era solo una specie di rituale per aspettare lei, quasi un venirle incontro pur restando tra le pareti di casa, mentre fuori s’accendevano le luci e lei passava per le botteghe in mezzo a quell’animazione fuori tempo dei quartieri dove ci sono tante donne che fanno la spesa alla sera. Alla fine sentiva il passo per la scala, tutto diverso da quello della mattina, adesso appesantito, perché Elide saliva stanca dalla giornata di lavoro e carica della spesa. Arturo usciva sul pianerottolo, le prendeva di mano la sporta, entravano parlando. Lei si buttava su una sedia in cucina, senza togliersi il cappotto, intanto che lui levava la roba dalla sporta. Poi: – Su, diamoci un addrizzo, – lei diceva, e s’alzava, si toglieva il cappotto, si metteva in veste da casa. Cominciavano a preparare da mangiare: cena per tutt’e due, poi la merenda che si portava lui in fabbrica per l’intervallo dell’una di notte, la colazione che doveva portarsi in fabbrica lei l’indomani, e quella da lasciare pronta per quando lui l’indomani si sarebbe svegliato. Lei un po’ sfaccendava un po’ si sedeva sulla seggiola di paglia e diceva a lui cosa doveva fare. Lui invece era l’ora in cui era riposato, si dava attorno, anzi voleva far tutto lui, ma sempre un po’ distratto, con la testa già ad altro. In quei momenti lì, alle volte arrivavano sul punto di urtarsi, di dirsi qualche parola brutta, perché lei lo avrebbe voluto più attento a quello che faceva, che ci mettesse più impegno, oppure che fosse più attaccato a lei, le stesse più vicino, le desse più consolazione. Invece lui, dopo il primo entusiasmo perché lei era tornata, stava già con la testa fuori di casa, fissato nel pensiero di far presto perché doveva andare. Apparecchiata tavola, messa tutta la roba pronta a portata di mano per non doversi più alzare, allora c’era il momento dello struggimento che li pigliava tutti e due d’avere così poco tempo per stare insieme, e quasi non riuscivano a portarsi il cucchiaio alla bocca, dalla voglia che avevano di star lì a tenersi per mano. Ma non era ancora passato tutto il caffè e già lui era dietro la bicicletta a vedere se ogni cosa era in ordine. S’abbracciavano. Arturo sembrava che solo allora capisse com’era morbida e tiepida la sua sposa. Ma si caricava sulla spalla la canna della bici e scendeva attento le scale. Elide lavava i piatti, riguardava la casa da cima a fondo, le cose che aveva fatto il marito, scuotendo il capo. Ora lui correva le strade buie, tra i radi fanali, forse era già dopo il gasometro. Elide andava a letto, spegneva la luce. Dalla propria parte, coricata, strisciava un piede verso il posto di suo marito, per cercare il calore di lui, ma ogni volta s’accorgeva che dove dormiva lei era più caldo, segno che anche Arturo aveva dormito lì, e ne provava una grande tenerezza.
Italo Calvino
favola mamà
" L'uomo che la sapeva lunga"
Un giorno un uomo disse a sua moglie:
"Non so davvero cosa fai delle tue giornate. Non devi fare altro che pulire la casa, badare al bambino e cucinare un boccone"
"Devo anche governare la mucca e il maiale, e devo fare il burro" si scusò la moglie.
"Ohhhh" sbuffò il marito "quelle sono sciocchezze. Io sono l'unico che lavora in questa casa! Tutto il giorno nei campi sotto il sole ardente. Magari fossi una casalinga e me ne potessi stare tutto il giorno a casa!!!"
"Allora prenditi una giornata di riposo domani" disse la moglie, "Io andrò nei campi e tu ti occuperai dei lavoretti di casa"
L'uomo rise: " Questa sì che è una buona idea, così ti farò vedere come si tiene la casa e tu capirai che lavoro duro è il mio!"
Il mattino seguente, come d'accordo, la moglie prese la falce e andò nei campi a mietere.
"Per prima cosa farò un po' di burro" decise l'uomo, e riempì la zangola di latte fresco. Poi pensò che un buon bicchiere di vino gli avrebbe fatto bene, così andò in cantina, mise la caraffa sotto la botte e svitò il tappo.
In quel momento si ricordò del maiale...lasciò perdere il vino e corse su per le scale.
TROPPO TARDI!
Il maiale era già entrato nella cucina e si era leccato tutto il latte. Gli toccò portarlo fuori e riempire la zangola di nuovo.
Intanto il bambino gattonava per il pavimento della cucina...ma mentre l'osservava si ricordò del vino! Lasciò perdere il bambino e corse in cantina.
TROPPO TARDI!
Tutto il pavimento della cantina era inondato dal vino uscito dalla botte, così gli toccò raccoglierlo e vuotarlo nell'orto.
"Visto che sono qui, coglierò la verdura per la minestra" decise...ma in quel momento si ricordò del bambino!
Lasciò perdere le verdure, aprì il cancello dell'orto e corse in casa.
TROPPO TARDI!
Il bambino si era arrampicato sulla zangola e aveva rovesciato tutto il latte! Latte sul pavimento, latte sul bambino, latte dappertutto!Lo raccolse e mise il bambino seduto ad asciugare al sole.
Fu allora che vide la mucca che vagava con aria affamata. "Non ho tempo di portarla fino al prato, la metterò sul tetto, lì c'è un sacco d'erba da brucare!"
Il tetto di stoppie della casa arrivava fin quasi a terra così riuscì a farvi salire la mucca, che si mise a brucare felice...ma in quel momento, l'uomo si ricordò del cancello dell'orto rimasto aperto!
Lasciò perdere la mucca e si precipitò nell'orto
TROPPO TARDI!
Il maiale era entrato e aveva divorato tutte le verdure! Dovette farlo uscire e mettersi ad aggiustare i tralicci dei fagioli...ma in quel momento si ricordò della mucca! E se fosse caduta dal tetto addosso al bambino?
Lasciò stare l'orto e corse a casa. Fortunatamente la mucca brucava ancora sul tetto perciò, per sicurezza, le legò una corda intorno al collo e l'altra estremità se la legò in vita dopo averla fatta passare per il camino fin dentro la cucina. "Così sarà al sicuro mentre preparo la minestra" disse, mettendo la pentola sul fuoco....ma improvvisamente la mucca scivolò dal tetto e cadde, sempre attaccata alla corda e l'uomo, attaccato all'altra estremità, volò per aria! Volò fuori dal camino e si fermò là in cima.
In quel momento, la moglie tornò dal campo.
"Sono tornata, il grano è tutto falciato" esclamò. Nessuno le rispose e allora si mise a cercare.
Trovò il bambino seduto al sole, l'orto distrutto e la mucca che penzolava dal tetto.
"Povera me, ma che è successo?" esclamò mentre tagliava la corda che legava la mucca con la falce. La mucca precipitò a terra muggendo e il marito, dall'altra parte, finì dentro la pentola della minestra!
La moglie si precipitò in cucina e lo trovò che si lamentava: "Che giornata, che giornata!"
"Non preoccuparti" disse la moglie "Andrà meglio domani, anche se è giorno di bucato e c'è da fare il pane. Io andrò a falciare l'altro prato...credo!"
"Oh no, no!" esclamò il marito "...voglio dire...non posso permetterti di fare tutto quel lavoro...Domani tu starai a casa e io andrò nei campi!"
Va bene caro, faremo come ogni giorno" rispose sorridendo la moglie.
Anna Sven
lunedì 26 ottobre 2015
Gli odori dei mestieri,G. Rodari
Gli odori dei mestieri.
Io so gli odori dei mestieri:
di noce moscata sanno i droghieri,
sa d’olio la tuta dell’operaio,
di farina sa il fornaio,
sanno di terra i contadini,
di vernice gli imbianchini,
sul camice bianco del dottore
di medicine c’è buon odore.
I fannulloni, strano però,
non sanno di nulla
e puzzano un po’.
G.Rodari
martedì 5 maggio 2015
la Santa Caterina,filastrocca (solo testo) Erice
La Santa Caterina
La Santa Caterina
era figlia di un Re.
Suo padre era pagano
sua madre invece no.
Un dì mentre pregava
suo padre la scoprì.
Che fai o Caterina
in quella posa lì.
Io prego Iddio mio padre
che non conosci tu.
Alzati o Caterina
se no ti ucciderò.
Uccidimi mio padre
ma io non mi alzerò.
Al colmo del furore
suo padre la colpì.
E gli angeli del cielo
cantaron "Gloria ".
Iscriviti a:
Post (Atom)